I tòr (I tori)
Il gioco dei "tori" si faceva in piazza. Quale piazza? La piazza.
A Milano quando si dice "in Galleria” nessuno chiede quale galleria!
La pavimentazione della piazza era in terra battuta (ideale per molti giochi) ma lungo tutto il suo lato nord passava (e passa) la strada principale del paese, che allora aveva il fondo di ciottoli e in quel tratto divideva la piazza dalle case.
Il gioco contrapponeva due squadre che in origine si chiamavano rispettivamente Tòr (Tori) e Pnstùu (Pastori). l Tori avevano facoltà di "incornare" i Pastori ai fianchi con zuccate alle quali i Pastori opponevano i gomiti, ma questa pratica non era molto seguita perché agli effetti del risultato della partita poteva essere controproducente per i Tori. Anche per questo il gioco fini col chiamarsi semplicemente i Tòr e col contrapporre due squadre di Tori.
Le squadre si formavano col solito sistema di scelta alternata dei componenti da parte dei due più quotati per quel tipo di gioco e che avevano fatto a "pari e dispari". Se era presente, uno dei due era inevitabilmente il Zipìn dal Togn che aveva veramente la struttura e la forza di un torello e che spesso risultava determinante per la vittoria della squadra cui apparteneva.
Le regole del gioco erano semplicissime. Una squadra si schierava tutta sull’acciottolato e l’altra la fronteggiava sulla terra battuta (una linea continua di pietre interrate con l’acciottolato segnava visibilmente il confine tra le due zone). Al ”pronti, via!" tutti i componenti di una squadra, tenendosi in qualche modo uniti tra loro, si buttavano su quelli dell’altra afferrandoli il più saldamente possibile in qualunque parte del corpo (ricordate il “prendi come puoi" della lotta libera?) e cercando di trascinarli tutti sul proprio terreno, così vincendo la partita.
Insomma, era una specie di tiro alla fune senza la fune in cui immediatamente le due squadre trasformavano lo schieramento iniziale in un groviglio inestricabile, fondendosi in mischie che non avevano nulla da invidiare a quelle del "rugby".
D’accordo, era sopra tutto un gioco di forza, ma non solo di forza: perché oltre che ”tirare" si poteva anche "spingere" dopo aver aggirato gli avversari (senza mai staccarsi dal gruppo per non indebolire la propria squadra: ecco un motivo per cui si rinunciava a ”incornare”); perché occorreva cogliere gli avversari nei loro momenti critici; perché si doveva magari fingere un cedimento che preludeva invece allo strattone finale che portava tutti i tori dell’acciottolato sulla terra battuta, o viceversa.
Il gioco aveva fasi alterne di predominio dell’una o dell’altra squadra e il risultato restava in bilico finché anche uno solo dei componenti di una squadra teneva un piede sul proprio terreno, mentre tutti i suoi compagni stavano ormai combattendo in campo avverso. Quando anche quell’uno cedeva la partita finiva e se ne cominciava un’altra semplicemente invertendo le posizioni di partenza.
Ora vinceva una squadra, ora l’altra. Il gioco era violento ma non cattivo né pericoloso: alla fine si contavano "feriti" soltanto fra gli indumenti e gli unici ”morti" che restavano sul terreno erano i bottoni!
Tratto dal libro di Deo Ceschina
Si ringrazia la moglie Elisa Ceschina per la pubblicazione