Nonna Zaneta, rannicchiata col suo esile corpo su un piccolo sgabello accanto al camino, giurava di averla vista sopra il pizzo curnà, ove ora sorge la stazione della funivia. Eretta e sibilante, con la cresta dello stesso carminio delle bacche del cespuglio dal quale era d’improvviso apparsa. Quando si mostrò, lei stava procedendo lenta, con lo sguardo basso, curva sul peso del gerlo carico di fieno, sotto il sole del dodicesimo tocco.
La vipera dalla cresta, mito terrifico, com’è noto a tutti, non appartiene alle tenebre e si manifesta in pieno giorno, poiché nulla teme e mai si dà alla fuga. Il suo potere è grande. Quando si rivela, non cede il passo e con occhi di vortice ti ammalia e paralizza. Le sue spire entrano nella tua mente e l’universo attorno a te si chiude, che più non puoi fuggire.
Così come apparve, ebbe a svanire, ci raccontava la nonna davanti al tronco di faggio che ormai fumava senza più crepitare.
Io e i miei fratelli ascoltavamo attenti, e volgevamo lo sguardo di soppiatto alle nostre spalle per rassicurarci che la stanza scura non celasse l’evocato mostro. Mentre un piccolo brivido gelato trascorreva la nostra schiena, la paura si fondeva al desiderio e mille quesiti correvano a sostegno del misero racconto.
Quanto era grande e qual era il suo colore? Quanto potente il suo veleno? Il piacere di narrare alimentava l’incanto dell’ascolto e le coscienze vigili si accordavano. Incalzata a più riprese la nonna accennava ad altri avvistamenti del temibile basilisco. In un caso, in prossimità di un castagno in località jò piaz, fu costretta a fuggire per non essere catturata dallo sguardo maligno, abbandonando la borsa di tela colma dei bruni frutti autunnali, assai più dispiaciuta per la perdita del contenitore di cenci, che non del contenuto. In un’altra occasione apparve sul sentiero mentre la nonna stava attingendo acqua presso il pané di mezza cavalla. Trattenne il fiato immobile finché non la vide svanire.In seguito, con maggiore raziocinio, mi ritrovavo a indagare se si fosse trattato di un unico individuo, mitico e sublime seppure spaventoso, o se appartenesse a una genia riconducibile a scientifiche classificazioni. Difficile era per me immaginare l’essere spaventoso racchiuso in un enorme vaso di vetro costretto alla geometria circolare del contenitore e affogato nell’alcool dopo aver vomitato il proprio spirito a suon di bastonate come uno scurzon (biacco)qualsiasi. Possibilità da escludere. I miti non possono morire perché si alimentano dei nostri sogni. Nessuno mai potrà tradurli all’imbalsamazione.
Capitava a volte, che nel vagabondare quotidiano a caccia di gatti e lucertole mi ritrovassi in quel del famoso avvistamento, irresistibilmente attratto dall’intenso rosso delle bacche del corniolo. Con circospezione mi avvicinavo allora al cespuglio con tutti i sensi tesi a cogliere il minimo segnale e con repentino scatto afferravo qualche frutto per poi darmi alla salvifica fuga. Non riesco a ricordare, fra i campioni dei miei gusti, sapore più aspro e allappante, sicché ancora oggi mi capita, passando in prossimità della funivia, di percepire il gusto pungente dei frutti vermigli avvolgermi la lingua mentre lo sguardo scorre attento ad accarezzare la roccia, per scoprire se per caso non appaia l’oscuro essere.
Sulla bestia mitologica si son sedimentate in me alcune certezze.
Il veleno della regina delle vipere non può che essere di colore verde.Per nutrirsi beve il latte direttamente dalle mucche mentre sono al pascolo, dopo averle incantate con lo sguardo.Al termine di ogni pasto lecca qualche foglia di ortica per rinvigorire il veleno. Non saprei dire quanto sia lunga, ma certamente è in grado di cingere con non meno di tre spire un castagno secolare.
La sua dimora e luogo d’origine è da individuarsi nei bòc della pora Menega, più precisamente, trattandosi di caverna bifora, nel più angusto fra i due cunicoli.
Pur non essendovi prove testimoniali, sono certo che incontrasse di frequente il mulo del Giuli, il quale provvedeva a farle ampi resoconti sulle creature dei boschi, sul numero delle poiane e delle vacche, sui luoghi di pascolo di pecore e capre e di infinite altre cose e persino degli umani, di galline e di conigli.
Il nobilissimo equino era senza dubbio il guardiano del suo territorio. Alto slanciato, fiero, grigio pomellato, solo apparentemente folle, giungeva alle tue spalle d’improvviso. Nel suo eterno pellegrinare tutto vedeva, ogni cosa valutava e immancabilmente riferiva.
Nella mia vita mi è accaduto infinite volte di percorrere pendii, penetrare boschi e attraversare prati. Mi sono imbattuto in aspidi, marassi, colubri, biacchi, orbettini, ramarri, salamandre e tritoni, ma mai ebbi occasione d’incontrare la vipera con la cresta.
A chi sta leggendo questo breve resoconto credo di poter dare un solo piccolo consiglio. Se tu dovessi, per sorte o per sventura, incontrare la grande serpe, mostrale il rispetto che le si deve e non alzar lo sguardo per sfidarla, poiché con un sibilo sottile, lentamente, ti succhierebbe l’anima.